domenica 25 luglio 2010

RIFLESSIONI SULL'UNIVERSITA'

Sull’Università, si gioca oggi una battaglia feroce, che, direi come al solito, appare sulla grande stampa in termini falsi. La regola d’oro della classe al potere, in senso lato, è quella del silenzio, e pertanto il dibattito deve avvenire in stanze ovattate, senza che sia data al cittadino comune la possibilità di capire cosa davvero si stia agitando nell’Università italiana. La cosa che preoccupa maggiormente è che perfino il numero più cospicuo di persone direttamente impegnate in queste vicende nella veste di oppositori, e cioè ricercatori, precari e studenti, ignori la sostanza reale delle questioni sul tappeto, sia cioè vittima di un formidabile equivoco.

Mi tocca fare una premessa “storica” sui vari provvedimenti che hanno riguardato l’Università, e sul ruolo che vi hanno giocato i sempiterni protagonisti di questo gioco continuo. Difatti, il giochetto consiste nel bombardare di innovazioni legislative il mondo accademico. Il guaio dell’Università sta proprio in questo, ma mi pare un difetto comune alla politica in generale. A partire da una giusta osservazioni di sintomi di malessere e malfunzionamento, si invocano le famose riforme, come se riformare sia un bene in sé. Questa connotazione positiva che in molti è insita in questo termine, sta dentro un’ideologia nuovista, per cui ciò che è nuovo si presume di per sé sia migliore dell’esistente. La verità invece è che, quando il Parlamento si decide ad intervenire sull’Università, lo fa quasi sempre in maniera pessima, e ciò è dovuto al peso che le lobbies interne allo stesso mondo accademico riescono ad esercitare attraverso gli stessi colleghi parlamentari. Ultimamente, direi che si sono aggiunte altre strade più dirette, ed apparentemente più istituzionali. Valga per tutte, l’influenza esercitata dalla CRUI, la conferenza nazionale che include i rettori di tutte le Università italiane. Sembrerebbe un miglioramento, ma purtroppo le cose non stanno così, data la carenza di collegamenti dei rettori con il personale delle università che dirigono. La cosa è stata talmente introiettata dai miei colleghi, che il massimo di rivendicazione sta nel chiedere alla CRUI di farsi portavoce delle istanze della base, anziché, come dovrebbe essere ovvio, contestare la stessa pretesa della CRUI di avere competenze legislative, sostituendosi così al complesso del personale universitario, pretendendo di rappresentarlo, malgrado l’assenza di strumenti che possano certificarlo.

Per tentare di salvaguardare la sintesi, dirò soltanto che soprattutto negli anni novanta, e sotto l’impulso principale del ministro Luigi Berlinguer, si è portato avanti un meccanismo di decentramento progressivo delle competenze nel settore universitario, e che è culminato nella cosiddetta “autonomia universitaria”. L’autonomia universitaria consiste essenzialmente nella pubblicità delle risorse, nella pubblicità dei suoi utenti (gli studenti), e nella delega agli organi di autogoverno degli Atenei, per quanto riguarda invece la destinazione delle risorse, e i collegati interventi nel campo

- della didattica; definizione dei corsi di studio,

- della apertura di sedi decentrate,

- della programmazione degli organici: quali nuovi posti chiamare, per quanto attiene la Facoltà, per quanto attiene il settore scientifico disciplinare, per quanto attiene la figura (ricercatore, associato o ordinario)

- scelta dell’organizzazione dell’Ateneo, anche per quanto riguarda il settore amministrativo

Questa delega agli stessi dipendenti dell’Università di poteri così vasti, è errata per una serie di motivazioni, che qui elenco:

- Lo è innanzitutto da un punto di vista di principio: l’Università è una risorsa pubblica, e i suoi dipendenti non hanno alcuno speciale diritto per arrogarsi poteri di gestione così vasti.

- Le possibili fattispecie di conflitti tra Università e singolo dipendente sono così frequenti, che sarebbe ovvio evitare questi palesi conflitti di interesse. Direi anzi che gli interessi dei dipendenti sono strutturalmente antitetici, almeno per certi aspetti, al datore di lavoro (lo Stato, naturalmente).

- Infine, l’argomento forse più importante è che la sperimentazione sin qui fatta è assolutamente insoddisfacente, cioè la pratica ha dimostrato che i motivi di principio che elencavo prima, hanno dispiegato i loro effetti in pieno. In sostanza, si è consentito il proliferare di insegnamenti improbabili, la moltiplicazione di corsi di studio in base a logiche evidentemente di parte, le chiamate sono avvenute secondo criteri arbitrari. In particolare, è ovvio che i settori che già sono i più affollati di docenti, avranno la forza elettorale per autoperpetuarsi, a danno dei settori in cui c’è carenza di personale, magari a volte a causa della loro innovatività. Allo stesso modo, la legge del 1998, una vera istigazione a delinquere col meccanismo perverso delle ternature, autogestita dagli stessi docenti, ha portato a privilegiare il meccanismo di promozione di carriera verso i colleghi, con cui magari si collabora, o che si spera possano rimanere riconoscenti, rispetto alle nuove assunzioni di ricercatori. Il risultato è di ritrovarci con una distribuzione del personale a piramide rovesciata: quello che dovrebbe essere il vertice, affollato, e quella che dovrebbe essere la base troppo ristretta. Nel frattempo, i meccanismi nepotistici hanno operato più che mai.

Tutto questo, si stenta a crederlo, è avvenuto per la pretesa ideologica di un gruppo di intellettuali, sostanzialmente di area PDS, ora PD, ben radicato anche all’interno degli Atenei, che la competizione sia il meccanismo giusto per raggiungere i migliori risultati di gestione. La pretesa che il mercato, in quanto tale, abbia effetti virtuosi, pur essendo smentito clamorosamente dai fatti, trova un consenso pressoché unanime in un arco politico che oggi rappresenta praticamente l’intero Parlamento. I fatti dimostrano che perché il mercato operi come effetto di selezione efficace, richiede una morale che lo assecondi, la morale calvinista della borghesia che ha creato il moderno capitalismo. Senza questa, il mercato viene aggirato tramite consorterie e cricche di ogni genere, come l’attualità ci consegna, e vale poco sostenere che alla lunga il mercato funziona, perché a questi tempi lunghi non ci si arriva: prima, si ha il degrado progressivo nel migliore dei casi, o la catastrofe nell’ipotesi più pessimistica. Il federalismo fiscale costituisce appunto uno degli effetti di questa cieca e stupida ideologia da cui non riusciamo a liberarci.

Qual è in questo scenario la novità dei nostri giorni? Sicuramente la novità più importante è certamente il taglio dei fondi alle Università: l’Italia, unica nel panorama dei paesi sviluppati, ha deciso di tagliare nei settori che dovrebbero essere i decisivi per mantenere una competitività del sistema paese, istruzione e ricerca: altri, al contrario, hanno investito proprio in questi settori. Ciò non è dovuto a un’esigenza di bilancio, ma costituisce uno dei presupposti per la privatizzazione dell’Università italiana. Dopo aver regalato pezzi importanti del patrimonio nazionale alla modesta classe capitalistica italiana (parlo ad esempio, di telecomunicazioni ed autostrade), adesso tocca agli Atenei e al loro straordinario patrimonio di competenze ma anche di strutture. Lo scontro in atto, insomma, è tutto interno a un vertice a cavallo tra mondo accademico, politico e finanziario. La finanza preme per la privatizzazione, mentre negli altri due settori si va svolgendo uno scontro che coinvolge in maniera strumentale direi, come pedine sullo scacchiere complessivo, tanti lavoratori dell’Università, convinti di sapere per cosa stiano lottando. Le cose però sembrano abbastanza differenti, come dovrebbe essere palese quando si consideri che un vero dibattito sull’Università e sugli esiti possibili di un processo realmente riformatore non è mai partito. Sull’Università, apparentemente, si discute di una cosa alla volta, prima della sorte dei ricercatori, poi del blocco delle tredicesime e della carriera, infine del pensionamento a 65 anni. Volta per volta, gli operatori dell’Università corrono dietro all’ultimo dei problemi che la stampa solleva periodicamente con grandi polveroni.

Di fronte a questa incapacità dei docenti universitari di farsi carico della complessità dei problemi che si affacciano sul mondo in cui essi operano, due gruppi politico-accademici opposti si fronteggiano. L’uno, di area genericamente della maggioranza parlamentare, punta decisamente alla privatizzazione, avendo come leader lo stesso ministro dell’economia. Questo gruppo comprende l’attuale maggioranza della CRUI, che, dietro pallide critiche alle ipotesi ministeriali, di fatto lo asseconda, almeno sul lato decisivo della contrazione delle risorse economiche. L’altro gruppo, genericamente nell’area dell’opposizione parlamentare, vuole proseguire l’esperienza dell’autonomia universitaria, mantenendo gli Atenei nella sfera pubblica. Nello stesso tempo, tenta di operare una difficile ed astuta operazione di concentrazione del potere, esautorando anche ufficialmente gli organi collegiali dalla maggior parte delle proprie competenze e poteri. In questa ipotesi, si continua così a mantenere la pubblicità delle risorse disponibili, mentre si continua a mantenere una sorta di autogestione, ma saldamente affidata a poche mani. Per un certo potere accademico, questa formula sarebbe la migliore: affidare a un gruppo di docenti sedicenti affidabili ed illuminati, in sostanza a sé stessi, il potere di gestione di risorse pubbliche. Peccato che, come direi nel caso illuminante di D’Alema, un grande politico che non ne ha imbroccato mai una che sia una giusta, anche questi illustri colleghi hanno mostrato insistentemente, pervicacemente direi, di non essere in grado di prevedere gli effetti nefasti della politica che essi di fatto hanno proposto ed imposto. Oggi tornano alla carica, autoemendandosi e riproponendosi così ancora come i deus ex-machina nella situazione data.

Riassumendo, potremmo dire che oggi si fronteggiano due differenti ipotesi. L’una consiste semplicemente in un processo di crescente privatizzazione delle università, che passa attraverso una loro riclassificazione, cioè di fatto proponendo una distinzione in classi di università, da quelle che dovrebbero puntare all’eccellenza, a quelle che dovrebbero divenire puramente delle strutture didattiche, una specie di superliceo.

L’ipotesi alternativa vuole dare una svolta autoritaria alla gestione degli atenei, attraverso una ricalibrazione dei ruoli dei docenti, in sostanza imponendo una nuova scala gerarchica al loro interno attraverso meccanismi ancora non esplicitati.

Io dico che entrambi questi progetti vanno sconfitti, perché tendono a qualificare l’autonomia degli atenei come costituzione di gruppi di potere, privati l’una, interni al mondo accademico l’altra, senza che questo possa in qualche misura garantire una loro maggiore efficienza. Se è vero che siamo in presenza di classi dirigenti mediocri, che preferiscono essere classe dominante, piuttosto che presentarsi come forze che possano garantire l’interesse generale, se l’intera Confindustria ha sposato la prassi industriale inaugurata da Marchionne, se d’altra parte è altrettanto vero che negli Atenei sono andate avanti logiche negative che ne hanno aggravato la situazione, credere che la soluzione dei problemi stia nell’affidare agli uni o agli altri la gestione delle università, sarebbe come credere di salvare un agnellino consegnandolo a un branco di lupi affamati.

Nella situazione data, di un governo chiaramente disinteressato alla rinascita degli atenei, perché pronto a consegnarli a privati più o meno amici o collusi, di un gruppo di docenti e rettori che si ripropone per ricoprire i ruoli dirigenti, si impone la costituzione di un’organizzazione di docenti che si sappia e voglia dare un ruolo di classe dirigente, che cioè difenda il ruolo fondamentale che l’università svolge nelle nostre società, che ponga come proprio unico criterio di giudizio l’interesse generale. La breve esperienza vissuta all’interno delle assemblee dei docenti nel mio ateneo, mi mostra invece una carenza, da parte proprio delle fasce più deboli, precari, ricercatori e studenti, a volere svolgere il ruolo egemonico che pure competerebbe loro, sempre indaffarati a sostenere in sostanziale passività l’iniziativa dei soliti noti, ancora una volta alla testa delle lotte. Ciò avviene perché un vero dibattito sull’università non si è mai avviato, perché questa specie di movimento si è sempre mosso su parole d’ordine improvvisate e parziali, senza porsi esplicitamente il problema non di fronteggiare questa o quella misura governativa, ma piuttosto di riprogettare l’intera università.

Dovremmo insomma ammettere che per motivi direi strutturali, l’autonomia negli atenei non può funzionare, e che bisogna ridare centralità alle decisioni, definendo dei criteri rigidi di ripartizione delle risorse. In una Università centralizzata, ci sarebbe spazio per i docenti democratici per svolgere il loro ruolo di controllo, di controproposta, in cui insomma finisca questa oscena commistione tra mondo accademico e ambienti ministeriali. Io pretendo cioè una capacità propositiva da parte del governo, a cui io possa obiettare, proporre alternative, giocare il ruolo che mi spetta come dipendente, di interlocutore potenzialmente ostile: da questa dialettica, verrebbero fuori risultati sicuramente più chiari e trasparenti, che non oggi, in cui quando lotto, non so se lo faccio contro o accanto un mio illustra collega che al ministero fa da consulente al ministro di turno.

6 commenti:

  1. Finalmente ti vedo sincero, specialmente perchè parli in maniera esplicita delle vere cose che ti stanno a cuore.Io non sono addentrata in questi problemi , anche perchè, come tu dici, a sentire la stampa pubblica si rischia di non capirci più niente. Credo però che mio figlio, che ambisce a fare il ricercatore, ti darebbe ragione.Purtroppo non c'è e non posso quindi proporgli il tuo scritto.
    Per quanto riguarda la mia modesta esperienza, concordo nel fatto che l'introduzione dell'autonomia nelle scuole sia stata deleteria.

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  2. Due tesi da sconfiggere, concordo. Disamina chiara; di fatto, il governo, vuole privatizzare tutto il sistema scolastico ed anche, quindi, l'istruzione universitaria per le ragioni che brillantemente hai evidenziato nel tuo post.

    Il problema é che dall'altra parte, molti sono ciechi, e tanti altri difendono il loro orticello quando non sono forse anche favorevoli ad una delle tue tesi per ragioni di interesse personale.

    Anche qui c'é da lottare duramente per cercare di scongiurare questo pericolo che tu paventi nel post.

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  3. @Paola
    Se mi vedi sincero per la prima volta, sarò un mentitore professionista allora :-D

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  4. @Daniele
    Il punto è che non basta lottare se non su un progetto, una piattaforma dicevamo nel '68, definita, che tolga la possibilità di essere manovrati.

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  5. Volevo rettificare il mio primo commento:quello che volevo dire è che finalmente ci troviamo sulla stessa lunghezza d'onda.

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  6. Argomento interessante ma non hai il dono della sintesi e della chiarezza: impossibile leggerti e concentrarsi fino in fondo alla lunghezza di ciò che scrivi. Riflettici perchè così non comunichi.
    PIERO

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